Il Mendicante

È la sera del 3 Gennaio. Come ogni anno, in questo periodo, i balconi, le vetrine e le strade prendono a brillare con centinaia e centinaia di luci colorate a volte fisse, come a voler indicare un limite altrimenti invisibile, altre ad intermittenza, quasi ad indicare un disperato bisogno di attenzioni.

Alcune di loro sembrano essere dei fiori in primavera. Tutto in netta contrapposizione con il freddo che, non curante dei miei tremori, sembra pungermi il viso con aghi invisibili e non contento sfoga ancora il suo sadismo intorpidendomi le dita di mani e piedi, mentre io attento muovo i miei ultimi passi incerti su di un marciapiede pericolosamente innevato.

Davanti a me vedo un albero spoglio, un silenzioso prigioniero in una riserva di terra, circondato da asfalto e cemento. Sui suoi rami, un tempo in fiore, conserva ora un po di quella neve che con ostinata forza resiste ancora per qualche tempo al proprio inevitabile destino.

Mentre la caotica città mi scorre attorno, io mi fermo davanti a quella che ora comincia a sembrarmi una scultura. Il buio, gentilmente interrotto dalla morbida luce dei lampioni, quasi lo nasconde ai meno attenti. Eppure l’albero è li per tutti.

Improvvisamente un’inopportuna quanto fastidiosa folata di vento, passando tra quelle possenti braccia di legno che protese verso il cielo sembrano supplicare la libertà, mi sbatte in faccia una freddissima e finissima polvere bianca che si insinua ovunque riesca a fare breccia, andandomi così ad inzuppare il collo del maglione.

Resto ancora fermo, come congelato. Mi sento disorientato. La stanchezza comincia a farsi sentire: sulle gambe, che fastidiosamente prendono a tremare, e sui pensieri, che mano a mano si fanno sempre più cupi e confusi.

Riesco finalmente a riguardare l’albero ma adesso non mi sembra più vittima di una crudele prigionia, quanto un malvagio gigante pronto a scagliare la propria forza sull’ormai debole e sventurato passante di turno, o forse è lui stesso la prigione per chi come me viene stregato dalla sua maestosità.

Arriva una macchina scura, si ferma poco più avanti di dove mi trovo in questo momento. Scendono un uomo ed un bambino, probabilmente suo figlio, il quale urla al presunto padre qualche cosa che non riesco a capire. La confusione attorno e dentro di me aumenta, è come se fossi in un vortice in cui colori e suoni si mischiano sempre più velocemente, non respiro bene, chiudo gli occhi, li stringo forte, respiro. Tutto rallenta.

Credo di poter riprendere a camminare, anche se, passo dopo passo, cresce in me una strana sensazione che provo ad ignorare. Mi guardo intorno cercando di farmi distrarre da qualsiasi cosa mi passi accanto ma niente riesce a distogliermi da quella che adesso sembra diventare una certezza più che una sensazione. Credo, nonostante i passi già fatti, di essere ancora fermo sotto quell’albero. Ma è talmente improbabile ed irrazionale che sorrido di me stesso e vado avanti. <<sicuramente sono parecchio stanco>> mi dico.

Così, come tutti gli inverni già passati, decido di stringere i denti e pensare ad altro, lascio che sia la mente a portarmi là dove vorrei andare. Il mio sguardo scorre stanco sulle facciate dei palazzi alla mia sinistra mentre a destra una fila di auto parcheggiate, gentile, protegge tutti quelli che come me sono esposti agli schizzi di fanghiglia di un traffico sempre meno intenso.

Il cielo sopra di me nasconde a tutti la luna con nuvole spesse che al buio nemmeno sembrano avere un colore. Quasi come se fosse un geloso e premuroso amante a proteggere una così rara e delicata bellezza. Ad accompagnarmi c’è il costante crepitio della neve sotto le mie scarpe, sempre più zuppe, ma finalmente eccomi difronte alla portina. Mentre con le mani, ora mai insensibili, cerco le chiavi nelle tasche del giaccone. La fisso senza guardarla realmente, la trovo anonima, uguale a mille altre portine di altrettanti uguali palazzi.

<<trovate!>> Esclamo tirando fuori il mazzo, ma appena prima di entrare lancio un preoccupato sguardo alla mia ombra che sembra quasi accasciata sulla facciata, vorrei aiutarla ma fa troppo freddo. Alzo lo sguardo, forse per distoglierlo da quello spettacolo preoccupante, e mentre giro la chiave per far scattare la serratura vengo rapito da una luce calda proveniente dalla finestra al secondo piano, a tratti interrotta da improvvisi flash colorati provenienti da una televisione probabilmente ignorata.

Sospiro esausto per la giornata trascorsa e un alone di vapore scorre aggrappandosi al vetro della portina che finalmente spingo verso l’interno. Mi lascio accogliere da un androne spoglio e mal illuminato, i neon al soffitto sembrano patire anche loro il freddo e così la loro luce trema insieme a me. Nonostante tutto è comunque meno fastidioso del caos che mi sono appena lasciato alle spalle. A fatica faccio le scale, sembra quasi che ogni gradino sia più alto del precedente, ma adesso eccola li, poco più su sulla destra incastrata nello stretto grigio passaggio, la vecchia porta di legno.

Apro. Appena dentro vengo accolto, quasi abbracciato, dal profumo di un incenso che silenzioso consuma la propria esistenza su di una piccola mensola nera. Dalla sua testa incandescente si alza un fumo esile e appena visibile che va a mimetizzarsi con il colore delle pareti circostanti. Per poi apparire a tratti riflesso su piccoli ritagli di specchi appesi al muro, simili a pacifiche onde di un lago d’inverno.

Spingo la porta alle mie spalle e lo scatto della serratura mi catapulta in una dimensione ancora più accogliente, il silenzio accarezza le mie orecchie mentre gli occhi godono di un così tranquillo ambiente. L’ingresso è illuminato solamente dalla luce proveniente dal bagno di fronte a me, il tepore che delicato mi accarezza il viso, ora meno contratto, mi invita come farebbe un amante a spogliarmi.

Così, ammaliato da quell’atmosfera, lascio cadere atterra i miei sudici vestiti ed incurante di loro mi dirigo verso la vasca da bagno da cui si alzano volute di vapore, che lente non raggiungono il soffitto e restano dunque li sospese a mezza altezza insieme a tanti miei pensieri.

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Entro nella vasca lasciando il resto del mondo là fuori, oltre il vetro appannato della finestra che dà sul freddo e buio cortile. Il profumo e la morbida schiuma del sapone mi accarezzano i sensi mentre con le mani passo in rassegna ogni centimetro del mio corpo sfregando e frizionando la mia pelle, lavando via ogni singolo granello di polvere.

<<ora sì!>> esclamo con un ritrovato vigore.

Mi alzo e sento che le gambe, prima tremolanti, sono diventate leggere e tutti gli altri muscoli, anche se indolenziti, si stanno rilassando. Così, libero da qualsiasi cosa, nudo davanti allo specchio appannato fisso nella mente un pensiero banale e scontato ma che in questo momento mi sembra così prezioso: gli uomini una volta lavati dalla sporcizia, che le apparenze gli appiccicano addosso, non sono poi così diversi tra loro. Che siano ricchi, poveri, bianchi o neri.

Mi avvolgo nel morbido e caldo accappatoio per asciugarmi portando così via gli ultimi ricordi di un inverno, che appena fuori le mura di quelle stanze, insiste e persiste.

Mi vesto velocemente con nuovi e puliti vestiti pregustando l’esatto momento in cui mi metterò seduto davanti ai fumanti piatti di una calda e saporita cena.

Esco quindi dal bagno ma appena prima di entrare in cucina mi fermo sulla porta, quasi come se quello fosse un preliminare tra me e la tavola imbandita.

Accarezzo con lo sguardo le verdi pareti della stanza per scivolare poi sui profili dei mobili che l’arredano e finalmente arrivo ad accarezzare la liscia tovaglia rossa su cui spiccano per il loro colore bianchissimi piatti colmi fino all’orlo di pietanze. Il tovagliolo con cura piegato sotto le posate e il bicchiere pieno di un vino rosso insieme a tutto il resto mi invitano a prendere posto.

Raggiungo la sedia, la sposto cercando di non farle fare rumore per paura di rovinare tutto quello che comincia a sembrarmi un sogno. Mi siedo e il cuscino fa del bagno un vecchio ricordo. Inizio a mangiare partendo da una fumante e saporita minestra, poi sposto il piatto fondo e senza alzarmi prendo la seconda portata.

Distratto dall’orgia di sensazioni che la cena mi sta regalando non mi accorgo di aver finito tutto, improvvisamente si fa spazio dentro me un bisogno sempre più grande di chiudere gli occhi e magari, perchè no, dormire fino a tardi. Osservo soddisfatto per un attimo qual che rimane della cena appena trascorsa: solo qualche briciola di pane, due piatti sporchi su cui riposano due posate stanche e il bicchiere ora vuoto ma che geloso conserva sul suo fondo una piccola goccia rossa.

Alzo lo sguardo e mi accorgo finalmente della televisione accesa, sono stato così impegnato a riempirmi lo stomaco che nemmeno l’ho guardata. La spengo e sullo schermo nero improvvisamente appare il mio riflesso, privo dei suoi colori naturali ma così nitido e preciso nelle forme che quasi mi infastidisce.

Insomma non è un immagine così piacevole, anzi trovo che stoni con il resto della casa mi fa sentire a disagio, vedo in quel riflesso l’ombra di un uomo logorato, consumato, non curato. Ecco che molti pensieri, che speravo aver annegato nella vasca da bagno, tornano ad affollare i miei pensieri, a rendere inquieta quell’atmosfera altrimenti così tranquilla.

Fisso il riflesso e lui fissa me, nessuno dice una parola, questo silenzio mi sta annoiando. Ho deciso: mi alzo; ma adesso forse per il vino, forse per la stanchezza o chissà per cos’altro è come se non percepissi più il mio corpo.

Confuso vado verso l’ingresso, il bagno e la cucina non esistono più, anzi mi sembra quasi non siano mai esistiti.

<< che sensazione assurda>>

Dell’incenso sulla mensola è rimasto solo più la grigia cenere ed ora ad illuminare l’ingresso c’è una debolissima luce sfumata di rosso che proviene dalla camera da letto.

Qui non trovo nè il tepore nè tanto meno quel senso di pace che ho sentito prima, provo piuttosto una strana ed apparentemente ingiustificata malinconia e l’ormai irresistibile voglia di addormentarmi. Nella scura penombra intravedo uno specchio enorme sulla sinistra difronte al quale scorgo il profilo di un letto delle cui coperte non vedo il colore, penso dunque se le coperte e le nuvole del cielo di notte possano essere la stessa cosa, e nel mentre lentamente mi sdraio in compagnia di improvvisi e inaspettati dolori, su di un lenzuolo bianco.

Non percepisco più nulla, non penso più a nulla, solo a dormire, chiudo gli occhi e mi accorgo di avere sempre più freddo, fa freddo, fa così freddo tanto da far sembrare il lenzuolo un morbido velo di fredda, freddissima neve.

di Stefano Graziosi

Sono nato a Torino, dove mi sono diplomato come chimico e ho studiato alla facoltà di Filosofia senza mai concluderla, come tante altre cose lasciate in sospeso nella mia vita. Vivo a volpiano insieme a mia moglie e ai nostri animaletti. Amo occupare il mio tempo libero scrivendo, leggendo e tutta una lunga serie di altri -endo e -ando.

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