“Siamo arrivati a un centro di smistamento, al confine tra il Sudan e la Libia. Questi erano gli accordi: scendi, paghi, cambi camion e altri mille chilometri di sabbia. C’era qualche tenda, una baracca due stanzoni, al posto del tetto una lamiera. Lì ci hanno diviso, signor Khaled. Hanno diviso le donne dagli uomini, le hanno fatte sedere a terra, attaccate al muro e hanno cominciato a fotografarle con i cellulari e in quel momento ho capito. Quelle foto sarebbero servite per sceglierle. E tra loro c’era mia moglie. Tekle mi ha guardato mentre era seduta a terra, ha legato i capelli dietro la nuca per sembrare meno bella, ha fatto quel che poteva per attirare l’attenzione il meno possibile. Invece l’hanno portata via e io ho cominciato ad urlare. Ho urlato forte finché un altro sudanese non mi ha colpito con la canna del fucile, prima sulla pancia, poi sulla testa e infine sulla schiena. Ricevo calci nello stomaco. In faccia, tossisco e sputo sangue a terra. Quando mi sono ripreso mia moglie non c’era.
Quand’è tornata mia moglie tremava, non parlava. Quando ho provato ad avvicinarmi mi ha detto solo “lasciami qui, a morire”. Ho pensato che fosse già morta. Mi ha detto: “Mi hanno violentato in quattro, Yohannes, è come morire” “
Khaled è un giovane ragazzo che è stato nella resistenza, che ha combattuto pieno di ideali e che ora cerca di mantenere in piedi quei pochi valori, cercando di sostituire il senso di colpa con fioche bugie e mezze verità. Non è colpa mia, si dice, io faccio il possibile per loro, loro che, codardi, scappano, chi ci rimette sono io, io che rimango in questo abisso.

Francesca Mannocchi, giornalista e documentarista che da molti anni si occupa di migrazioni e zone di conflitto, ci restituisce la sua voce. Le sue parole raccontano un mondo in cui puoi scegliere solo se essere vittima o carnefice: il ragazzino con il mitra che impedisce alle donne di prelevare i propri soldi o la donna che lascia tutto nella speranza del mare; il trafficante di uomini che fa un giro al carcere per svuotare i testicoli, o il bambino a cui viene rubato il salvagente da un uomo più disperato; la madre in lacrime, il cui figlio è scomparso o la donna allibita, il cui figlio è un trafficante.
In questo mondo senza mezze misure e mezzi termini, il punto di vista di Khaled appare quasi sensato: lui dà a quei “negri”, a quei disperati, quanto di più prezioso ci sia: una speranza. Così si fa pagare, il giusto, più paghi e più benefit hai: dell’acqua, del cibo, un posto sul ponte e non ammassato in stiva, forse un salvagente. Meno paghi, meno speranze hai di sopravvivere ma il mare è sovrano, il mare non guarda in faccia nessuno e nessuna giustizia esiste nel mare.

Nella Libia dei giorni nostri, che fingiamo di non vedere, si mischiano passato e presente, i ricordi di un ragazzino rivoluzionario e le speranze di una giovane coppia che ha perso tutto, il regime dittatoriale di Gheddafi e la nuova libertà, quella parola che Khaled sentiva sussurrare dal nonno quand’era un bambino e che ora ha assaporato così tanto da non sentirne più il sapore.
In un vortice di emozioni, aneddoti e fatti, Mannocchi riesce a regalarci con uno stile semplice ma conciso ciò che noi europei ignoriamo e finanziamo, una disperazione che, come il mare, trascina gli uomini verso l’abisso.